Non Chiamateli Giochi: Scacchi Antichi e Orientali
da AetnaNet del 29 Agosto 2012
da Sotto Le 2 Torri - Il Foglio di Bologna n° 35 - Agosto 2012 - Pagine 27-28
da Sotto Le 2 Torri - Il Foglio di Bologna n° 35 - Agosto 2012 - Pagine 27-28
Non tutti sanno che gli scacchi moderni portano nel loro DNA numerose tracce delle cosiddette “varianti antiche”, come lo Chaturanga e lo Shatranj, tutt’oggi praticate.
Lo Chaturanga si è diffuso in India a partire dal VI secolo d.C. e si ritiene essere il primo antesignano degli scacchi; alcuni studiosi lo reputano a sua volta derivare da arcaici giochi cinesi, tuttavia quest’ultimi sembrerebbero presentare solo alcuni tratti in comune con esso, confermando così la precedente tesi. Il nome deriva da chatur e anga, rispettivamente ‘quattro’ e ‘membro’, rifacendosi all’antica struttura dell’esercito indiano, composto da quattro elementi, quali la fanteria, la cavalleria, gli elefanti e i carri da guerra. Si gioca in quattro, due contro due, ponendo agli angoli del tavoliere ciascuno dei quattro eserciti di otto pezzi ciascuno. I colori delle armate (verde, rosso, giallo, nero) sono tipicamente indiani, rintracciabili anch’essi nel celebre gioco del Pachisi. I pezzi a disposizione sono un Rajah (il ‘re’), un Elefante, un Cavaliere, una Nave e quattro Fanti, con movimenti che ricalcano da vicino quelli odierni. La particolarità del gioco sta nel porre una certa posta iniziale nel piatto dei vincitori e nell’uso di un dado con numeri da 2 a 5, strumento atto a determinare la tipologia di mossa al proprio turno: se il giocatore ottiene 2 muoverà la sua nave, se ottiene 3 il cavaliere, se ottiene 4 l’elefante, se ottiene 5 un fante o il rajah. Se è possibile, la mossa è sempre obbligatoria altrimenti si salta il turno. A seconda delle posizioni o combinazioni che i pezzi assumono nel corso della partita, del controllo di determinate case o catture di pezzi avversari è possibile raddoppiare o quadruplicare la posta o scambiare dei prigionieri. Lo chaturanga combinava quindi fortuna e abilità, divenendo uno dei primissimi giochi d’azzardo dell’umanità, concetto che ancora oggi viene espresso con l’etimo arabo di az-zah (‘dado’).
Dall’India il gioco passò alla Persia col nome di Chatrang. Gli Arabi, dopo alla conquista di quest’ultima, lo diffusero col nome di Shatranj, dal persiano shah (‘re’), stilizzando i pezzi nelle forme ed eliminando ogni elemento aleatorio. Lo Shatranj è ufficialmente considerato il diretto antenato degli scacchi, le cui regole di gioco sono sostanzialmente simili. Nel passaggio in Europa intorno all’anno Mille, ad opera dei Mori in Spagna e dei Crociati di ritorno dalla Terra Santa, i pezzi assunsero le correnti fattezze tipicamente medievali, ascrivibili alle corti del tempo. Lo shatranj si gioca in due su una scacchiera 8x8. Al consueto Shah, che muove come il re negli scacchi, si aggiunge il Visir o Primo Ministro (in seguito la “Regina”), due Fil, gli Elefanti poi diventati “Alfieri”, due Cavalli, due Ruhk (cammelli da guerra arabo-persiani) poi diventati “Torri” e otto Pedoni. Scopo del gioco è lo scacco matto o intrappolamento del re avversario, dall’arabo shah-mat (‘re-morto’).
Parallelamente alla diffusione dello shatranj in Medioriente e degli scacchi in Europa si assiste in Estremo Oriente allo sviluppo delle varianti dello XiangQi in Cina e dello Shogi in Giappone, derivati a loro volta dal chaturanga indiano.
Parecchio praticato in Cina, lo XiangQi o “Gioco degli scacchi cinese” fu il risultato dell’esportazione del chaturanga in Cina ad opera di mercanti, combattenti e buddisti. Alcuni ricercatori lo fanno risalire al IV secolo a.C. Secondo lo studioso cinese David H. Li sarebbe invece stato ideato nel 205 a.C. dal generale Han Xin, discepolo del famoso generale Sun Tsu. Si gioca in due su una scacchiera composta da dieci traverse orizzontali e nove colonne verticali. A differenza degli scacchi i pezzi vengono posizionati sulle intersezioni o punti, così come nel Go/WeiQi. Il campo di gioco è diviso orizzontalmente in due parti da un fiume, al centro delle prime tre file ritroviamo un quadrato composto da nove punti che rappresenta il castello. I pezzi sono tutti di forma circolare sui quali sono marcati dei kanji, i tipici ideogrammi cinesi. Ciascun giocatore ha a disposizione un Imperatore (oggi “Generale”) e due Mandarini (oggi “Consiglieri”) che muovono esclusivamente all’interno del castello, due Torri (dette anche “Carri”), due Cannoni (detti anche “Bombarde”), due Cavalli, due Elefanti e cinque Soldati (o “Pedoni”). Si ha la vittoria quando un giocatore riesce ad attaccare il re avversario ed egli non ha mosse che lo tolgano da tale situazione, o quando le uniche mosse del giocatore di turno esporrebbero il re ad un attacco avversario. È possibile applicare alcune speciali regole con handicap tra giocatori di forza differente, prevedendo un diverso numero di pezzi, di mosse o di movimento e cattura, a favore o meno di uno specifico giocatore.
Lo Shogi, letteralmente ‘Gioco dei Generali’, trae origine dallo xiangqi. Fu introdotto in Giappone da messi imperiali verso l’ottavo secolo d.C., per poi evolversi progressivamente, sino alla sua forma attuale, a partire dall’anno Mille. Lo shogi si gioca in due su una scacchiera (shogiban) cromaticamente uniforme di nove caselle per lato, con due linee di promozione che separano la terza traversa dalla quarta e la sesta dalla settima. I due giocatori, Bianco e Nero (Gote e Sente) dispongono di venti pezzi sagomati a forma di freccia, tutti di identico colore, sul cui fronte è riportato un ideogramma giapponese e la punta rivolta in direzione dell’avversario, così da determinare chi ha il controllo del pezzo durante il gioco. L’equipaggiamento di ciascun giocatore è composto da un Re (unici pezzi differenziati per colore, Osho o “Signor Generale” per il re bianco, considerato il regnante, e Gyoku o “Generale di Giada” per il re nero, considerato lo sfidante), due Generali d’Oro (Kin), due Generali d’Argento (Gin), due Cavalli (Kei), due Lancieri (Kyo), una Torre (Hi), un Alfiere (Kaku) e nove Pedoni (Fu). Come negli scacchi l’obiettivo rimane quello dello scacco matto, ciò nonostante i due giochi presentano alcune differenze. Come nello xiangqi è possibile effettuare delle partite con handicap, giocando con un numero inferiore di pezzi. Quando taluni pezzi giungono oltre la linea di promozione acquistano specifiche abilità aggiuntive, oppure si trasformano in determinati pezzi superiori. I pezzi catturati, inoltre, non vengono eliminati dal gioco ma rimessi in campo nelle fila avversarie, con facoltà di “paracadutarli” in una casella vuota, a scelta del giocatore; quest’ultima regola si rifà idealmente alle frequenti guerre feudali nipponiche, dove le sorti della guerra erano decise dalle mutevoli alleanze, con il passaggio dei vari contendenti da un fronte all’altro.
Gli scacchi sembrano seguire una linea evolutiva che non conosce battute d’arresto e che in futuro potrebbe riservarci ulteriori e gradite sorprese.
Lo Chaturanga si è diffuso in India a partire dal VI secolo d.C. e si ritiene essere il primo antesignano degli scacchi; alcuni studiosi lo reputano a sua volta derivare da arcaici giochi cinesi, tuttavia quest’ultimi sembrerebbero presentare solo alcuni tratti in comune con esso, confermando così la precedente tesi. Il nome deriva da chatur e anga, rispettivamente ‘quattro’ e ‘membro’, rifacendosi all’antica struttura dell’esercito indiano, composto da quattro elementi, quali la fanteria, la cavalleria, gli elefanti e i carri da guerra. Si gioca in quattro, due contro due, ponendo agli angoli del tavoliere ciascuno dei quattro eserciti di otto pezzi ciascuno. I colori delle armate (verde, rosso, giallo, nero) sono tipicamente indiani, rintracciabili anch’essi nel celebre gioco del Pachisi. I pezzi a disposizione sono un Rajah (il ‘re’), un Elefante, un Cavaliere, una Nave e quattro Fanti, con movimenti che ricalcano da vicino quelli odierni. La particolarità del gioco sta nel porre una certa posta iniziale nel piatto dei vincitori e nell’uso di un dado con numeri da 2 a 5, strumento atto a determinare la tipologia di mossa al proprio turno: se il giocatore ottiene 2 muoverà la sua nave, se ottiene 3 il cavaliere, se ottiene 4 l’elefante, se ottiene 5 un fante o il rajah. Se è possibile, la mossa è sempre obbligatoria altrimenti si salta il turno. A seconda delle posizioni o combinazioni che i pezzi assumono nel corso della partita, del controllo di determinate case o catture di pezzi avversari è possibile raddoppiare o quadruplicare la posta o scambiare dei prigionieri. Lo chaturanga combinava quindi fortuna e abilità, divenendo uno dei primissimi giochi d’azzardo dell’umanità, concetto che ancora oggi viene espresso con l’etimo arabo di az-zah (‘dado’).
Dall’India il gioco passò alla Persia col nome di Chatrang. Gli Arabi, dopo alla conquista di quest’ultima, lo diffusero col nome di Shatranj, dal persiano shah (‘re’), stilizzando i pezzi nelle forme ed eliminando ogni elemento aleatorio. Lo Shatranj è ufficialmente considerato il diretto antenato degli scacchi, le cui regole di gioco sono sostanzialmente simili. Nel passaggio in Europa intorno all’anno Mille, ad opera dei Mori in Spagna e dei Crociati di ritorno dalla Terra Santa, i pezzi assunsero le correnti fattezze tipicamente medievali, ascrivibili alle corti del tempo. Lo shatranj si gioca in due su una scacchiera 8x8. Al consueto Shah, che muove come il re negli scacchi, si aggiunge il Visir o Primo Ministro (in seguito la “Regina”), due Fil, gli Elefanti poi diventati “Alfieri”, due Cavalli, due Ruhk (cammelli da guerra arabo-persiani) poi diventati “Torri” e otto Pedoni. Scopo del gioco è lo scacco matto o intrappolamento del re avversario, dall’arabo shah-mat (‘re-morto’).
Parallelamente alla diffusione dello shatranj in Medioriente e degli scacchi in Europa si assiste in Estremo Oriente allo sviluppo delle varianti dello XiangQi in Cina e dello Shogi in Giappone, derivati a loro volta dal chaturanga indiano.
Parecchio praticato in Cina, lo XiangQi o “Gioco degli scacchi cinese” fu il risultato dell’esportazione del chaturanga in Cina ad opera di mercanti, combattenti e buddisti. Alcuni ricercatori lo fanno risalire al IV secolo a.C. Secondo lo studioso cinese David H. Li sarebbe invece stato ideato nel 205 a.C. dal generale Han Xin, discepolo del famoso generale Sun Tsu. Si gioca in due su una scacchiera composta da dieci traverse orizzontali e nove colonne verticali. A differenza degli scacchi i pezzi vengono posizionati sulle intersezioni o punti, così come nel Go/WeiQi. Il campo di gioco è diviso orizzontalmente in due parti da un fiume, al centro delle prime tre file ritroviamo un quadrato composto da nove punti che rappresenta il castello. I pezzi sono tutti di forma circolare sui quali sono marcati dei kanji, i tipici ideogrammi cinesi. Ciascun giocatore ha a disposizione un Imperatore (oggi “Generale”) e due Mandarini (oggi “Consiglieri”) che muovono esclusivamente all’interno del castello, due Torri (dette anche “Carri”), due Cannoni (detti anche “Bombarde”), due Cavalli, due Elefanti e cinque Soldati (o “Pedoni”). Si ha la vittoria quando un giocatore riesce ad attaccare il re avversario ed egli non ha mosse che lo tolgano da tale situazione, o quando le uniche mosse del giocatore di turno esporrebbero il re ad un attacco avversario. È possibile applicare alcune speciali regole con handicap tra giocatori di forza differente, prevedendo un diverso numero di pezzi, di mosse o di movimento e cattura, a favore o meno di uno specifico giocatore.
Lo Shogi, letteralmente ‘Gioco dei Generali’, trae origine dallo xiangqi. Fu introdotto in Giappone da messi imperiali verso l’ottavo secolo d.C., per poi evolversi progressivamente, sino alla sua forma attuale, a partire dall’anno Mille. Lo shogi si gioca in due su una scacchiera (shogiban) cromaticamente uniforme di nove caselle per lato, con due linee di promozione che separano la terza traversa dalla quarta e la sesta dalla settima. I due giocatori, Bianco e Nero (Gote e Sente) dispongono di venti pezzi sagomati a forma di freccia, tutti di identico colore, sul cui fronte è riportato un ideogramma giapponese e la punta rivolta in direzione dell’avversario, così da determinare chi ha il controllo del pezzo durante il gioco. L’equipaggiamento di ciascun giocatore è composto da un Re (unici pezzi differenziati per colore, Osho o “Signor Generale” per il re bianco, considerato il regnante, e Gyoku o “Generale di Giada” per il re nero, considerato lo sfidante), due Generali d’Oro (Kin), due Generali d’Argento (Gin), due Cavalli (Kei), due Lancieri (Kyo), una Torre (Hi), un Alfiere (Kaku) e nove Pedoni (Fu). Come negli scacchi l’obiettivo rimane quello dello scacco matto, ciò nonostante i due giochi presentano alcune differenze. Come nello xiangqi è possibile effettuare delle partite con handicap, giocando con un numero inferiore di pezzi. Quando taluni pezzi giungono oltre la linea di promozione acquistano specifiche abilità aggiuntive, oppure si trasformano in determinati pezzi superiori. I pezzi catturati, inoltre, non vengono eliminati dal gioco ma rimessi in campo nelle fila avversarie, con facoltà di “paracadutarli” in una casella vuota, a scelta del giocatore; quest’ultima regola si rifà idealmente alle frequenti guerre feudali nipponiche, dove le sorti della guerra erano decise dalle mutevoli alleanze, con il passaggio dei vari contendenti da un fronte all’altro.
Gli scacchi sembrano seguire una linea evolutiva che non conosce battute d’arresto e che in futuro potrebbe riservarci ulteriori e gradite sorprese.
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